QUANDO LA MINACCIA DEL LICENZIAMENTO CONFIGURA UN’ESTORSIONE

A norma dell’art. 629 c.p. “chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da 5 a 10 anni e con la multa da € 1.000 a € 4.000”.

Possono verificarsi ipotesi in cui anche la minaccia del licenziamento da parte del datore di lavoro può configurare il reato di estorsione. Infatti la prospettazione del licenziamento, rappresentando la prefigurazione di un male, se ingiusta può configurarsi come una minaccia vera e propria. Essa possiede l’idoneità a costringere il dipendente, quando minacciato, a fare o non fare quello che gli viene chiesto, anche se ingiusto. Oltre a ciò, è certamente verificabile l’ingiusto profitto a danno del dipendente, proprio come richiesto dalla fattispecie di reato. Il datore di lavoro, infatti, attraverso la minaccia del licenziamento può ottenere dall’azione o dall’omissione del dipendente un vero e proprio guadagno: esso si può identificare anche con un aumento della produzione al quale non corrisponde un corrispettivo aumento stipendiale del lavoratore.

Sul punto è intervenuta la Suprema Corte di Cassazione (Cass. sent. 1284/2021), stabilendo che “la condotta del datore di lavoro che costringe i dipendenti, mediante la minaccia di licenziamento, a firmare buste-paga inferiori alla prestazione lavorativa effettivamente compiuta, integra il reato di estorsione”.

Dunque è chiaro che il lavoratore che accetta un trattamento retributivo inferiore e non adeguato alle prestazioni effettivamente compiute potrà denunciare il proprio datore di lavoro. Essendo, l’estorsione, un reato procedibile d’ufficio la denuncia alle Autorità potrà pervenire anche da qualsiasi persona sia a conoscenza del comportamento illecito del datore di lavoro.

A presto

MN