Responsabilità medica e COvid19 - Avv. Marco Notarangelo, Diritto a porte aperte
La responsabilità medica è attualmente disciplinata dalla legge n. 24/2017 (Legge Gelli – Bianco), il cui art. 5 prevede che “Gli esercenti le professioni sanitarie, nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco. […] In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali”.
Limitandoci in questo contesto all’esame dei profili penali, va detto che l’intervento normativo del 2017 ha abrogato l’art. 3 comma 1 della precedente disciplina contenuta nella legge n. 158/2012 (Legge Balduzzi), introducendo nel codice penale il nuovo art. 590 sexies rubricato “Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario”. Esso dispone che se i fatti di omicidio e lesioni colpose sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le stesse pene previste per tali reati.

La punibilità è esclusa, invece, qualora nel caso di specie concorrano insieme 3 fattori:

a) La realizzazione dell’evento a causa di imperizia (incapacità tecnica);

b) Il rispetto delle raccomandazioni previste dalle linee guida o delle buone pratiche clinico assistenziali;

c) L’adeguatezza delle linee guida alle specificità del caso concreto.

Il dato normativo ha dato luogo ad interpretazioni contrastanti, sfociate ben presto nella rimessione della questione alle Sezioni Unite della Suprema Corte, che con sentenza n. 8770 del 2018 hanno statuito che:
“L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica:

a) Se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da negligenza (mancanza di attenzione) o imprudenza (avventatezza);

b) Se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia, nell’ipotesi di errore rimproverabile nell’esecuzione dell’atto medico quando il caso concreto non è regolato dalle linee guida o dalle buone pratiche clinico assistenziali.;

c) Se l’evento si è verificato per colpa (soltanto grave) da imperizia nell’ipotesi di errore rimproverabile nell’esecuzione, quando il medico, in detta fase, abbia comunque scelto e rispettato le linee guida o le buone pratiche clinico assistenziali adeguate al caso concreto, tenuto conto, altresì, del grado di rischio da gestire e delle specifiche tecniche dell’atto medico.

Ma nell’ipotesi di lavoro in èquipe, come nel caso di operazione chirurgiche, sino a che punto il medico può rispondere dei comportamenti colposi riferibili ad altri componenti del gruppo di lavoro e, dunque, fino a che limite si estendono i suoi obblighi di diligenza, prudenza e perizia laddove si trovi ad operare unitamente ad altri soggetti?

Lavoro medico pluridisciplinare

Dottrina e giurisprudenza hanno elaborato nel tempo il “principio di affidamento”: nello svolgimento di attività rischiose svolte da più soggetti, ciascuno gravato da obblighi di diligenza dal diverso contenuto, ognuno può e deve poter confidare nel corretto comportamento degli altri soggetti. Ne consegue che ciascun sanitario risponderà penalmente soltanto delle proprie condotte, dovendo attendersi dagli altri il rispetto delle prescrizioni ad essi indirizzate.

Tale criterio d’imputazione della responsabilità, incontra due eccezioni:
1) Quando il sanitario è gravato da un obbligo di controllo e sorveglianza nei confronti dei colleghi;
2) Quando, in relazione a particolari contingenze concrete, sia possibile che altri non si atterrà alle regole cautelari che disciplinano la sua attività.

Fatta chiarezza sulla disciplina attualmente in vigore in materia di responsabilità medica, ci si chiede come sia possibile fare applicazione di questi criteri d’imputazione laddove il sanitario si trovi a dover fronteggiare una malattia ignota e per la quale non vi sono soddisfacenti indicazioni di cura e prevenzione da parte del Ministero della Salute.

Responsabilità medica in tempi di pandemia da Covid-19

La recente diffusione del Covid-19 apre problematiche nuove. Il virus, come noto, determina infatti una malattia di natura altamente virulenta che, diffondendosi rapidamente, si espande in vaste aree geografiche. L’esistenza del Covid-19 era nota alle istituzioni prima della chiusura totale delle attività (pertanto “prevedibile”) ma non ne erano conosciute né la velocità di diffusione, né la sua virulenza, tanto che giuridicamente questa malattia ben può costituire fatto ignoto quale articolazione del caso fortuito. Non era, infatti, possibile individuare preventivamente tutti gli strumenti in grado di fronteggiare l’emergenza.

Ci si chiede allora quale criterio applicativo potrebbe dettare l’accertamento giudiziale sulla responsabilità di un medico. Quale dovrebbe essere il comportamento da tenere per non incorrere in responsabilità, in assenza di un agente-modello o soddisfacenti e compiute linee guida accreditate dalla comunità scientifica in grado di indirizzare l’operato del personale medico? Del resto, come si è detto, la violazione delle linee guida o delle buone pratica clinico-assistenziali comporta l’attribuzione di responsabilità in capo al medico che non abbia tenuto un comportamento conforme a quanto avrebbe dovuto.

Tuttavia, essendo in sé il Covid un fatto ignoto, la comunità scientifica ha adottato linee guida provvisorie per la stessa natura della malattia, non ben conosciuta né valutabile in relazione alla forza ed alla capienza delle strutture sanitarie a disposizione.

Dunque non si potrebbe affermare l’esistenza di un medico-modello capace di integrare una figura affidante e sulla cui base parametrare il comportamento tenuto nel caso concreto.

La domanda successiva è allora la seguente: la condotta del medico che non ha parametri di riferimento, può essere ritenuta colpevole, avendo egli cagionato l’evento morte del paziente? La malattia avrebbe condotto allo stesso risultato indipendentemente dall’azione del sanitario?

Dal punto di vista prettamente penalistico, sarà fondamentale dimostrare la “causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento”, di cui all’art. 41 comma 2 c.p.

In buona sostanza, il medico dovrebbe poter dimostrare che, anche qualora le cure fossero state effettuate, il paziente non sarebbe sopravvissuto. Di qui, in assenza di evidenze scientifiche, la difficoltà di accertare e soprattutto di provare il nesso di causalità giuridica e la possibilità che, ove curato adeguatamente, il paziente avrebbe potuto guarire. Manca, infatti, una legge di copertura scientifica in grado di stabilire una relazione tra l’evento morte e la condotta tenuta dal medico.

Non esiste, infatti, una scienza esatta che possa costituire la base dell’accertamento del nesso causale, non esistono parametri di riferimento ai quali poter solidalmente ancorare un’indagine sulla responsabilità medica perché sono proprio le sue fondamenta ad essere in costruzione. Lo stesso è necessario per avere linee guida autosufficienti e performanti rispetto alle mansioni da svolgere, ovverosia una serie di parametri dai quali non discostarsi, e non una necessaria improvvisazione professionale dovuta alle contingenze di un fatto ignoto.

La questione è pertanto aperta: il perimetro dell’accertamento giudiziale tanto sarà determinato quanto maggiori saranno le conoscenze scientifiche relative al nuovo virus, in grado di orientare la futura giurisprudenza.

A presto
MN